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Red Bull e NASCAR: una storia finita troppo presto

di Gabriele Dri
NascarLiveITA
Pubblicato il 28 Novembre 2018 - 10:00
Tempo di lettura: 11 minuti
ARTICOLO DI ARCHIVIO
Red Bull e NASCAR: una storia finita troppo presto
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Questa storia inizia con una marea di soldi investiti e termina purtroppo in un tribunale di Charlotte con un’asta giudiziaria. E’ una storia di tanti rimpianti, di tanti se e tanti ma. Come spesso mi accade, parla di una vicenda parallela a quelle che tutti conoscono e che invece è ignota ai più. Parla di un’altra avventura americana durata troppo poco, in totale poco meno di 13 anni, iniziata con la bevanda energetica più famosa al mondo, la Red Bull, passata per un fast food, il Burger King, e finita con un’acqua “miracolosa” arrivata all’ultimo giorno a sponsorizzare una vettura altrimenti desolatamente bianca. 

Questa storia inizia abbastanza a sorpresa il 25 gennaio del 2006, quando viene annunciato che dall’anno successivo la Toyota schiererà delle vetture anche in Cup Series. Il costruttore giapponese già da tempo ha iniziato a pianificare l’approdo in Nascar e dal 2004 è presente nella Truck Series, categoria in cui ha già vinto 13 gare in due anni e che in quello stesso 2006 conquisterà i primi titoli piloti, con Todd Bodine, e costruttori.

Per cominciare Toyota correrà con sei vetture affidate a tre team, quello di Michael Waltrip, quello di Bill Davis e una nuova squadra, il Team Red Bull, che in tutto e per tutto è simile a quella presente in Formula Uno da appena un anno. Non è quindi una semplice sponsorizzazione, ma un team ufficiale con vetture schierate a nome di Dietrich Mateschitz. E gli investimenti sono subito ingenti. Viene comprata l’ex sede del Team Penske e si inizia già a parlare di piloti e tecnici. Nella lista dei desideri ci sono addirittura Kevin Harvick, Dale Jarrett, Casey Mears, Robby Gordon (già sponsorizzato dalla Red Bull), Elliott Sadler e addirittura Chad Knaus, ma alla fine si punterà decisamente più in basso. Chi è al capo di questa operazione è una persona diventata nota al grande pubblico solo negli ultimi anni. Già presente alla Jaguar fra il 2001 e il 2003, nel 2005 era tornato alla neonata Red Bull in qualità di direttore delle operazioni tecniche, ma, in vista dell’arrivo di Adrian Newey, Mateschitz lo aveva nominato dal 1° aprile 2006 come direttore tecnico della filiale Nascar. Il suo nome è Günther Steiner.

Si avvicina la fine del 2006 e il team decide di esordire in gara per non giungere impreparato alla stagione del debutto. La nuova Toyota Camry non è ancora omologata e quindi a Charlotte si scende in pista con una Dodge e al volante della vettura #83 c’è addirittura Bill Elliott, anche se non disputa una stagione completa dal 2003 ed ha 51 anni. Bill è 44° su 52 auto e quindi non si qualifica per la gara. Dopo aver saltato Martinsville il team si ripresenta ad Atlanta ed in Texas e al volante dell’altra vettura, la #84, c’è AJ Allmendinger, al debutto assoluto in Nascar dopo una carriera promettente in Champ Car. L’inesperienza di entrambi porta altre due DNQ e il rodaggio si chiude qui.

Nel 2007 inizia ufficialmente l’epoca della Toyota. I piloti scelti alla fine per la prima stagione completa sono Brian Vickers sulla #83 e lo stesso AJ Allmendinger sulla #84. Il primo appuntamento è ovviamente la Daytona500. Delle 6 Toyota annunciate un anno prima, quella del Bill Davis Racing si qualifica (le due wild card no), le tre del team di Waltrip pure, per il team Red Bull è un disastro e arrivano altre due DNQ. Passa una settimana e si va a Fontana (un ovale da due miglia, tenetelo a mente per dopo) e AJ ancora non si qualifica, mentre Vickers non solo parte 15° ma arriva pure 10°. Il risultato desta sensazione, tuttavia i mali di gioventù non sono finiti, infatti sette giorni dopo a Las Vegas ci sono di nuovo due DNQ. A fine anno Vickers è 38° in classifica con una top5 (in una pazza CocaCola600 con un finale fuel mileage), 5 top10 e 13 DNQ mentre Allmendinger è 43° con tre top20 in 17 gare (e quindi ovviamente ci sono ben 19 DNQ).

I due piloti vengono confermati per il 2008 e il ruolino di marcia è lo stesso. Vickers inizia con un 12°, un 11° e un 24° posto, AJ invece con tre DNQ e viene così sostituito da Mike Skinner, il quale porta a casa cinque qualifiche in cinque gare. Intanto Brian viaggia veloce: 5° a Talladega, 2° a Pocono, in Michigan (l’altro ovale da due miglia presente in Nascar) ottiene la prima pole della squadra e poi arriva 4°. La seconda parte di campionato è in calando e conclude al 19° posto finale. Allmendinger invece è in crisi. Dopo essere tornato al volante della #84 ha vinto a sorpresa lo Sprint Showdown e quindi si è qualificato alla All-Star Race, ma i risultati veri non arrivano. E’ 10° a Indianapolis, poi 9° in Kansas, ma pochi giorni dopo viene appiedato di nuovo; Skinner torna per due gare e il campionato lo conclude un altro pilota proveniente dalle monoposto e già sotto contratto con la Red Bull: Scott Speed.

Il 2009 inizia con Brian Vickers sempre sulla #83 e viene confermato anche Scott Speed sulla #82 (ex #84), mentre lascia il suo ruolo Günther Steiner. L’altoatesino fonda un’azienda di materiali compositi a Mooresville e lì verrà ripescato dal team Haas nel 2016 per guidare l’iniziativa opposta, quella di Gene Haas dalla Nascar verso la F1. Speed fatica alla prima stagione completa (tre DNQ, 5° a Talladega e sole quattro top20 complessive) mentre Vickers cresce. E pure tanto: 6 pole position, di cui tre sugli ovali da 2 miglia, 7 top10 nella prima metà del campionato, poi consecutivamente è 7° a Chicago, 5° a Indy, 6° a Pocono, 11° al Glen e il 16 agosto del 2009 vince in Michigan! Poi è 12° a Bristol e i settimi posti ad Atlanta e Richmond permettono a Vickers di battere Kyle Busch di soli 8 punti e di qualificarsi alla Chase come 12° (e allora ultimo) pilota. Il 2009 è l’anno dell’esplosione del team Red Bull in entrambe le categorie, dato che in F1 la scuderia è seconda nel mondiale, conquista anch’essa la prima vittoria e mette le basi per il dominio negli anni successivi con Sebastian Vettel. Tornando alla Nascar, come nel 2008 nel finale di stagione Vickers termina la benzina (nessuna top10) e arriva ultimo dei piloti qualificati alla Chase.

La coppia viene confermata anche per il 2010. Vickers inizia con tre top10 in 11 gare, ma prima di Dover viene fermato dai medici: gli vengono trovati dei coaguli di sangue nelle gambe e vicino ai polmoni, e dunque c’è un alto rischio di trombosi. Mentre Speed migliora relativamente (30° a fine campionato con due sole top10), sulla #83 si alterna una pletora di piloti. Prima Casey Mears per quattro gare, poi a Sonoma arriva Matthias Ekström (!), il quale correrà pure a Richmond, poi Reed Sorenson (13 gare con una top10), al Glen corre lo specialista Boris Said e infine per le ultime cinque gare arriva il sostituto definitivo Kasey Kahne (6° a Homestead dopo essere partito dalla pole)

Nel 2011 i medici danno l’ok e Vickers torna al volante. Inoltre viene confermato Kahne sulla ex #82, ora #4. I due piloti possono dunque rendere al meglio con un team alla quinta stagione completa. Vickers come al solito inizia bene e poi si spegne e sarà 25° in campionato. Invece Kahne è ottimo: due pole, 15 top10, 8 top5 con l’unico problema di essere state ottenute troppo tardi per potersi qualificare per la Chase. Alla penultima gara a Phoenix il 13 novembre arriva anche la vittoria, la seconda nella storia nel team (per la cronaca nello stesso giorno ad Abu Dhabi Sebastian Vettel si ritira per la prima volta in stagione dopo una cavalcata trionfale culminata nel titolo). Nelle ultime due gare viene schierata pure una terza vettura per Cole Whitt, il quale l’anno prima aveva disputato le uniche due gare del team nella Xfinity Series.

E proprio mentre il team sembrava pronto il salto di qualità definitivo, Mateschitz decide di concentrare tutte le risorse sulla F1. Il 20 giugno del 2011 esce la notizia che la Red Bull vuole cercare degli investitori per il team e alla fine Dietrich vende la squadra per circa 10 milioni di $ al costruttore di ristoranti in franchising di Burger King Ron Devine e al coltivatore di pomodori Wayne Press: nasce così il BK Racing. E la lenta agonia ha inizio. Gli sponsor mancano, tant’è che sulle vetture ci sono i marchi dei principali fornitori della catena di fast food, come Dr.Pepper, o lo stesso Burger King.

Ovviamente i piloti scelti non sono né Vickers, passato part-time al team di Michael Waltrip, né Kahne, trasferitosi addirittura al team Hendrick che rilancerà definitivamente la sua carriera. Sulla #23 ci sono David Reutimann e Travis Kvapil, sulla #83 Landon Cassill. Kvapil è 8° a Talladega, ma sarà l’unico risultato di rilievo per lungo tempo. Sulle vetture del team si alternano piloti paganti o piloti al debutto in Cup Series, anche se la scelta è a posteriori di tutto rispetto: il 2014 è l’anno di Alex Bowman sulla #23, nel 2016 c’è David Ragan, nel 2015-16 Matt DiBenedetto, il quale a Bristol ottiene un incredibile sesto posto che resterà il miglior risultato nella storia della squadra.

Ogni inverno c’è il quesito se il BK Racing si presenterà al via e man mano che passano gli anni i problemi vengono alla luce. Debiti col fisco, debiti con i fornitori, debiti con tutti. E quindi nel 2017 aumenta la rotazione dei piloti in grado di portare qualche sponsor in più. Dopo che nel 2014-15 il team porta in pista tre vetture, e in qualche gara pure quattro, nel 2018 sparisce anche la storica #83 e rimane solo la #23 con Gray Gaulding (9° a Talladega nell’ottobre del 2017 per la terza e ultima top10 nella storia del BK Racing) alla guida. A inizio anno c’è persino il dubbio che il team si presenti a Daytona, ma alla fine una vettura completamente bianca si presenta in Florida. Quando il team è già in pista arriva l’accordo con uno sponsor, tale Earthwater, che promuove la sua acqua come ricchissima di sali minerali e in grado di risolvere mille problemi. Insomma, un prodotto al confine tra effetto placebo e truffa.

Poi i soldi finiscono del tutto e il team finisce in amministrazione controllata. E l’ammontare dei debiti è impressionante: 11 milioni di $ di perdite nel 2014, 10.1 nel 2015 e 8.45 nel 2016 con le banche che chiedono indietro 11.5 milioni e l’agenzia federale che deve riscuotere quasi 3 milioni di tasse non pagate. All’asta di agosto viene venduto tutto quello che si può; il pezzo più pregiato è il cosiddetto charter (una delle 36 franchigie assegnate dalla Nascar) e se l’aggiudica il Front Row Motorsports per poco più di 2 milioni di dollari. La stagione si chiude con una fase di transizione fra il vecchio team e il nuovo, il quale proprio ieri ha annunciato che – in pratica – utilizzerà il charter appena acquistato per schierare una terza vettura, la #36, per il rookie Matt Tifft da affiancare alle ormai consuete #34 e #38 per Michael McDowell e David Ragan. La storia del BK Racing finisce ufficialmente a Homestead con un 32° posto di JJ Yeley ma idealmente l’era si era già chiusa a Talladega nello scorso ottobre, quando l’auto portata in pista per la prima volta dal 2007 non è una Toyota ma una Ford, vettura utilizzata dallo stesso Front Row e che è decisamente più veloce sugli superspeedway, come dimostrato dai recenti successi dell’ovale blu a Daytona e Talladega.

Termina così la storia di un team nato sotto i migliori auspici, finanziato dai milioni di dollari di uno sponsor-proprietario come Red Bull e con il sostegno di una delle più grandi case costruttrici al mondo, Toyota, che aveva deciso di sbarcare in Cup Series e cercava dei team per iniziare l’avventura. Poi il giochino si ruppe e il passaggio dal vecchio al nuovo proprietario, come spesso succede, anziché un percorso di crescita portò verso la fine come in un lento gorgo da cui era impossibile uscirne.

Con il senno di poi la Red Bull ha abbandonato la Nascar proprio mentre la Toyota aveva iniziato a vincere con costanza. Il costruttore giapponese aveva già fatto il salto di qualità nel 2008 quando aveva convinto il Joe Gibbs Racing ad abbandonare la Chevrolet per il marchio giapponese e dunque il loro rodaggio in Cup Series era finito e avrebbero puntato al bersaglio più grande con questo team. I successi parziali, il primo con Kyle Busch ad Atlanta nella primavera del 2008, alla fine si sono trasformati in due titoli piloti (Kyle Busch nel 2015 e Truex nel 2017) e due titoli costruttori (2016-17) dopo quasi 65 anni di vittorie ininterrotte delle case americane, quattro stagioni dopo l’addio della Red Bull. E se Dietrich Mateschitz fosse rimasto in Cup Series? Purtroppo non lo sapremo mai se avrebbe vinto lui l’anno scorso e non il Furniture Row e chissà se nella mente dell’imprenditore austriaco ogni tanto viene questo pensiero.

Immagine: GettyImages per sbnation.com e per nascar.com

Fonti: racing-reference.info; sbnation.com; jayski.com; en.wikipedia.com; statsf1.com; youtube.com


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